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Il canto vedico è una delle forme più antiche di salmodia e di tradizione orale ininterrotta esistente. Oltre ad essere una forma di apprendimento orale proveniente dalla tradizione spirituale indiana, è considerato anche pratica di concentrazione e meditazione.

Quando ci si riferisce al canto vedico, secondo la tradizione, si usa il termine adhyayanam, che in sanscrito significa “lettura, studio”, in modo particolare dei Veda (uno dei sei doveri di un bramino), che è l’arte di ascoltare e imparare a recitare con attenzione, cura e coinvolgimento profondo della mente, del cuore e del corpo.

Desikachar durante la recitazione in canto vedico

Desikachar durante la recitazione in canto vedico

Il canto vedico e le sue regole rigorose hanno permesso la conservazione dei Veda, l'antichissima raccolta in sanscrito di testi sacri dei popoli arii che invasero intorno al XX secolo a.C. l'India settentrionale.

Siamo in un'epoca in cui non esiste ancora la scrittura e tutto viene tramandato in forma orale.

Era forte, quindi, il rischio di degenerazione e di trasformazione di “testi orali” così preziosi come i Veda, in quanto non composti ma ascoltati dai Ṛṣi (veggenti o cantori ispirati), che si erano occupati di raccogliere questa opera religiosa per consegnarla agli uomini.

Secondo la tradizione vedica, nessun essere umano possedeva l'autorità di trasformare il contenuto dei Veda: persino un semplice errore di recitazione poteva alterarne il significato e la finalità.

Il canto vedico e le sue regole hanno svolto pertanto un ruolo contenitivo e protettivo nei confronti di questa importante opera religiosa.

L’antica pedagogia del canto vedico può essere riassunta in una semplice formula: “ripetere esattamente come recita il maestro”.

Lo studente siede davanti all'insegnante, ascolta attentamente la sua recitazione e poi, a sua volta, recita allo stesso modo una, due o, anche, tre volte.

Se l'allievo sbaglia, il brano deve essere recitato di nuovo fino a quando non si fanno più errori.

Questo sistema ha costituito un lignaggio di trasmissione orale da maestro ad allievo che è andato avanti per secoli e che ha impedito gran parte delle distorsioni nella recitazione.

Uno degli aspetti che maggiormente ha contribuito a mantenere i Veda pressoché inalterati sono i diversi stili di recitazione, pāṭha, che possono essere utilizzati nel canto.

Esistono due tipi principali di recitazione: prakṛti e vikṛti. Il tipo di recitazione prakṛti non altera la sequenza delle parole del brano originale, mentre quello vikṛti si riferisce a speciali combinazioni di parole elencate nel brano originale.

Oltre agli stili di recitazione, il canto vedico contempla sei regole principali che sono evidenziate nei Veda stessi: varṇa (pronuncia), svara (note), mātra (durata), balam (forza - l'aspirazione o meno di una sillaba), sāma (collegamento tra le note) e santāna (punteggiatura - quando introdurre le pause).

Grazie ai diversi stili di recitazione e alle regole del canto vedico, possiamo sostenere che il modo in cui i Veda vengono recitati oggi si avvicina molto al modo in cui venne recitato la prima volta dai Ṛṣi.

A parte qualche piccola differenza, il modo in cui i Veda vengono recitati in una zona dell'India non è molto diversa da come vengono recitati in un'altra parte.

Recitazione dei Veda e degli Yoga-sūtra

Qual'è la differenza tra la recitazione dei Veda e la recitazione di altri testi che non siano i Veda?

Queste opere possono essere derivate dai Veda oppure sono composizioni più tarde dei Ṛṣi e assumono l'appellativo di Smṛti (“ciò che è ricordato”, possiede sempre un autore, molto spesso un ṛṣi), mentre i Veda sono chiamati Śruti (“ciò che è udito”, si assume che la voce udita fosse quella del Signore).

Come abbiamo visto, la recitazione dei Veda segue delle regole precise che assicurano uniformità, mentre non ci sono regole precise che governano la recitazione di altri testi, che possono pertanto presentare differenze nel modo in cui vengono recitati.

Ad esempio, gli Yoga-sūtra o il Mahābhārata possono essere recitati diversamente in funzione della tradizione.

Se la pratica del canto vedico da qualche decennio ha varcato i confini dell’India per diffondersi nel mondo, è anche merito di T. Krishnamacharya che, nel tentativo di mantenere in vita questa arte recitativa, ha iniziato a trasmetterlo a chiunque fosse interessato e rispettoso della tradizione, tra cui le donne e gli occidentali, a cui era precluso. In un secondo momento, l’uso del canto è stato proposto da Krishnamacharya anche nella pratiche di āsana.

Presumibilmente, legato anche a questo nuovo impulso, il 7 novembre 2003, l’Unesco ha proclamato la tradizione del canto vedico un “Capolavoro del Patrimonio Orale e Immateriale dell’Umanità”.

La pratica regolare del canto vedico può portare lo studente a fare esperienza dell’espressione vocale alla stregua di uno strumento musicale; coltivare la relazione intima tra voce, corpo, respiro, mente e cuore; sviluppare una qualità di attenzione che crea spazio alla riflessione e agli interrogativi su di sé; e sostenere terapeuticamente il senso di benessere, la calma mentale e la direzione spirituale.

Cosa intendiamo con la parola consapevolezza? Intendiamo la pura attenzione silenziosa e non giudicante presente nel momento presente. E contemplare il corpo e la mente vuol dire osservare con questa attenzione le sensazioni fisiche, l’avvicendarsi di attrazione e repulsione nella nostra mente, il succedersi di emozioni e stati d’animo; vuol dire osservare i pensieri e le immagini che accompagnano gli stati d’animo.

Corrado Pensa da Il Silenzio tra Due Onde
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