di Marco Passavanti

Chi entra in qualsiasi libreria e inizia a curiosare qua e là incappa quasi immancabilmente nella sezione di ‘filosofia orientale’, le cui sottocategorie di solito comprendono scaffali dedicati a temi esotici come lo yoga, le arti marziali, il tantra, il kāmasūtra, il feng shui, i chakra, Osho, i sufi, eccetera.

Le reazioni variano solitamente da persona a persona: c’è chi tira dritto convinto che la filosofia sia una soltanto, ovvero quella che dai presocratici arriva pura e incontaminata fino a Galimberti; c’è il curioso, che sa poco o nulla di Oriente ma se ne sente vagamente attratto; e infine c’è l’entusiasta, che vede nell’Oriente la patria di ogni saggezza, il baluardo dello spirito contro il gretto materialismo dell’Occidente. Tutte e tre queste figure sono a vario titolo vittime inconsapevoli di un pernicioso equivoco di fondo: la presunta esistenza di un monolitico «Oriente», a cui si contrapporrebbe un altrettanto monolitico «Occidente».

La prima cosa che dovremmo tenere presente quando usiamo il termine «Oriente» è che forse sarebbe meglio usare il plurale. A ben guardare, esistono molti «orienti», tanti quante sono le culture che compongono l’intricato mosaico dell’Asia, tanti quante sono le complesse vicende storiche che ne hanno segnato lo sviluppo nel corso dei millenni. Accomunare sotto la rubrica «filosofia orientale» i Dialoghi di Confucio, gli Yogasūtra di Patañjali, il Corano, un libro di Krishnamurti, un’opera del Dalai Lama o di Osho può essere un’ottima strategia di marketing, ma è una pessima scelta intellettuale.

L’Asia è in realtà un insieme di culture diversissime tra loro; in seno ad esse sono sorti prodigiosi sistemi di pensiero, alcuni vecchi di millenni; a volte si riscontrano tra di essi analogie sorprendenti, a volte differenze radicali. Appiattire questa meravigliosa fioritura di idee, credo religiosi, visioni del mondo, simboli, pratiche e credenze sotto la rubrica ‘filosofia orientale’ rischia di instillare l’idea che da qualche parte, lontano da noi, esista un luogo remoto chiamato Oriente, un luogo popolato da una moltitudine indistinta di «orientali» che credono al karma, vivono serenamente senza sbalzi d’umore, sono tolleranti e vegetariani, praticano la meditazione, dimorano nel presente, aprono i chakra e il terzo occhio, e ovviamente praticano in massa lo yoga, il tai chi o le arti marziali.
Questi stessi orientali, pieni di valori spirituali, sanno anche come godersi la vita: non hanno sensi di colpa, conoscono il kāmasūtra e le sue posizioni, si mantengono giovani e senza malattie con l’āyurveda o con altre terapie olistiche, e talvolta riescono ad arrivare all’illuminazione facendo sesso per ore e ore.

In altre parole l’«Oriente» è per molti quel luogo in cui abbonda tutto ciò che a noi manca: sia la saggezza, la felicità, la calma, la salute o il piacere.
Sarà vero? Ciò che è indubbiamente vero è che l’«Oriente», anzi, gli Orienti, sono molto più interessanti, complessi, problematici e sfaccettati di quanto pensiamo.

Cosa intendiamo con la parola consapevolezza? Intendiamo la pura attenzione silenziosa e non giudicante presente nel momento presente. E contemplare il corpo e la mente vuol dire osservare con questa attenzione le sensazioni fisiche, l’avvicendarsi di attrazione e repulsione nella nostra mente, il succedersi di emozioni e stati d’animo; vuol dire osservare i pensieri e le immagini che accompagnano gli stati d’animo.

Corrado Pensa da Il Silenzio tra Due Onde
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