Yoga ed «energia»: suggestioni, ambiguità e qualche riflessione critica
di Marco Passavanti
«Energia» è una delle parole chiave dello yoga contemporaneo. Tutti la usiamo, tutti ne siamo affascinati e tutti le attribuiamo ogni sorta di significati, spesso senza renderci conto della complessità e del carattere problematico che essa sottende:
“Sento l’energia che scorre ”; “Ho un blocco energetico”; “Assorbite l’energia della terra”; “Le mudrā sigillano l’energia”; “In quest’āsana riesco a sentire le linee di energia”; “Bisogna portare l’energia verso il canale centrale”; eccetera, eccetera.
A cosa ci riferiamo esattamente quando parliamo di energia? Il più delle volte è qualcosa che non sappiamo bene come definire ma della cui esistenza siamo grosso modo certi, qualcosa che si sente o si intuisce ma che è difficile esprimere a parole. «Energia» è dunque un termine sufficientemente vago e al tempo stesso sufficientemente evocativo da poter contenere ogni sorta di sfumature, adattarsi a ogni contesto e tollerare ogni abuso. Il concetto di energia diffuso nello yoga contemporaneo si riferisce, più o meno direttamente, al concetto tradizionale di prāṇa, ed è legato in modo indissolubile a molte idee diffuse nel pensiero teosofico e New Age, nonché a moltissime forme moderne e contemporanee di medicina olistica e di ‘spiritualità alternativa’. Avere chiaro a quale ambito specifico ci riferiamo quando usiamo il termine «energia» può aiutarci a inquadrarlo nella giusta prospettiva, e ci consente di usarlo consapevolmente, evitando interpretazioni ingenue o eccessivamente vaghe.
Iniziamo dal concetto di prāṇa. Definirlo in modo preciso richiederebbe una lunga trattazione (e corpose citazioni), che appesantirebbero non poco lo spazio di questo post. Limitiamoci a una definizione essenziale nell’ambito generale del pensiero indiano: il prāṇa è solitamente concepito come il respiro o soffio vitale che anima il corpo e che si diffonde in esso sotto forma di cinque soffi maggiori (vāyu) e cinque soffi minori (upavāyu). Al momento della morte i soffi abbandonano il corpo, che da vivente diviene cadavere. Nello yoga è legato indissolubilmente a una delle sue tecniche più importanti, il prāṇāyāma, ovvero il controllo, o allungamento, del soffio vitale realizzato attraverso il controllo della respirazione. Pochi sanno che a questa definizione tradizionale del prānā se ne affianca un’altra, tipica del pensiero neo-hindu, che reinterpreta questo concetto legandolo alle dottrine pseudoscientifiche ed esoteriche del mesmerismo, tanto in voga negli ambienti occultistici e teosofici del XIX secolo, ma anche nella New Age contemporanea.
Swami Vivekananda (1863-1902), uno dei pensatori più importanti del neo induismo e padre fondatore dello yoga moderno, utilizza il termine prāṇa arricchendolo di nuove sfumature ispirate direttamente alle dottrine mesmeriche. La sua interpretazione del concetto di prāṇa è di capitale importanza per tutto lo yoga contemporaneo, in modo particolare per quelle forme che insistono sul lavoro corporeo e propriocettivo (ovvero il cosiddetto «yoga posturale moderno»). Quando nello yoga di oggi si parla di «energia», spesso non si fa che riproporre inconsapevolmente le definizioni coniate da Vivekananda, definizioni che hanno finito ormai per assumere un carattere normativo. Non pretendo ovviamente di stabilire nel breve spazio di un post se le sue idee sul prāṇa siano ‘giuste’ o ‘sbagliate’, ma intendo semplicemente fare chiarezza sulla genesi e lo sviluppo di questo concetto fondamentale. La seguente interpretazione del pensiero di Vivekananda si basa su un saggio fondamentale di Elizabeth De Michelis, A History of Modern Yoga, in modo particolare sul capitolo 5 dell’opera.
Le teorie mesmeriche prendono il nome dal medico tedesco Franz Anton Mesmer (1734-1815), e si basano sul concetto di magnetismo animale: esiste un fluido fisico sottile che pervade l’universo e connette l’uomo, la terra e i corpi celesti, ma anche gli uomini l’uno con l’altro. La malattia si origina da uno squilibrio nella distribuzione del fluido nel corpo, mentre la guarigione avviene ripristinandone l’equilibrio. Grazie a certe tecniche è addirittura possibile incanalare, conservare e dirigere su altre persone questo fluido. In questo modo si possono indurre delle ‘crisi’ nel paziente e curare le malattie. Nelle sue opere Vivekananda presenta il prāṇa nei termini scientifici e materialistici delle scienze fisiche, e tenta di dimostrare (a costo di inevitabili forzature) che tali conoscenze erano già state raggiunte nell’India antica. Il prāṇa (esattamente come il fluido mesmerico) è per lui una forza sottile, dal carattere tanto ‘spirituale’ quanto ‘materiale’, che fa da sostrato a tutto ciò che esiste e costituisce la forza vitale in ogni essere. Secondo Vivekananda una delle finalità del prāṇāyāma consiste nella distribuzione del prāṇa nel corpo al fine di ripristinarne l’equilibrio e ristabilire la salute. Egli perciò materializza il concetto di prāṇa, intendendolo come un ‘fluido’ concreto e percepibile che risponde a leggi fisiche precise anche se ‘sottili’ e può essere perciò controllato a piacimento dallo yogin. Controllando il respiro è possibile controllare il prāṇa e percepirne il movimento nel corpo, così da riuscire a curare se stessi e gli altri, accrescere la volontà e aumentare il proprio livello di «vibrazione», giungendo infine al samādhi. Molti dei ‘dogmi’ dello yoga contemporaneo sono in perfetta sintonia con i termini in cui Vivekananda presenta questo processo: il viaggio interiore dello yogin è innanzitutto un viaggio di esplorazione propriocettiva del corpo, alla scoperta di una fisiologia sottile ed energetica che non va letta in modo simbolico (i cakra e le nāḍī non sono strutture immaginali ma ‘esistono’ e spesso sono identificati o associati a terminazioni nervose o ghiandole endocrine). È la nostra mancanza di armonia e di sensibilità a impedirci di percepire questa dimensione sottile, una dimensione che di fatto è in sintonia perfetta con la scienza moderna: ciò che la fisiologia sta scoprendo oggi sarebbe stato già scoperto dagli yogin del passato, e le loro intuizioni ‘scientifiche’ aspetterebbero soltanto di essere convalidate dagli scienziati.
Va detto che questa tendenza a ‘fisicizzare’ il prāṇa e a postulare una fisiologia ‘pneumatica’ (verrebbe quasi da dire «idraulica») non è un fenomeno esclusivamente moderno e legato all’Occidente, ma si riscontra anche nelle tradizioni dell’Haṭha yoga, dove al sistema delle nāḍī e dei cakra viene attribuito uno status ambiguo: si tratta infatti di una struttura ‘sottile’ ma comunque influenzabile e controllabile attraverso atti di natura fisiologica (manipolazioni del respiro, āsana, e soprattutto mediante determinati ‘sigilli’, o mudrā). Ad esempio, T. Krishnamacharya (2013, p. 21) paragona il sistema dei cakra agli ingranaggi di una macchina, legandoli direttamente alla fisiologia del corpo:
«Se il sangue non è puro, i canali (ṇāḍī) e i centri energetici (cakra) non funzionano in modo efficiente e alacre. Possiamo paragonarli agli ingranaggi di un congegno meccanico, come un motore o una dinamo: se anche un solo ingranaggio è danneggiato, l’intero congegno si blocca. Allo stesso modo, se anche un solo centro energetico nel nostro sistema corporeo si guasta, la salute generale del corpo viene compromessa e ne risultano molte complicazioni»
Questo modello haṭhayogico, di derivazione tantrica, è la base del concetto di ‘corpo sottile’ divulgato nello yoga contemporaneo. Esso va però distinto dall’analogo modello propriamente ‘tantrico’ da cui deriva, che è invece concepito come un ‘corpo immaginale’ (termine usato da A. Padoux 2011, pp. 96-100). Nei testi tantrici Śivaiti e buddhisti il corpo yogico immaginale, che va visualizzato ed evocato nella meditazione e nel rituale, è legato sicuramente al corpo fisico ma gode di un status soprattutto simbolico. Nota a questo proposito Gavin Flood (2006. p. 162):
«Visualizzare il corpo come fosse mappato da questi centri sottili è chiaramente un processo di intestualizzazione (entextualisation, sic!) del corpo, ovvero una mappatura del cosmo e del viaggio del sé verso la sua fonte trascendente, secondo le modalità specifiche della tradizione di riferimento. Perciò, cercare di comprendere i cakra al di fuori di questo contesto, come fossero strutture ontologicamente esistenti ed extra testuali, è incoerente». (traduzione mia)
Detto in altri termini, nelle tradizioni tantriche il sistema energetico dei cakra e dei canali è legato a specifiche tradizioni (basate ciascuna su uno o più testi di riferimento), e dunque non va inteso come una realtà ontologica a sé stante: i cakra esistono nella misura in cui li evochiamo dentro di noi, e dunque non ci appartengono in modo innato, come accade invece per il fegato, i reni, il cuore o la milza, eccetera.
Nella New Age contemporanea (che intrattiene con il neo induismo un lungo e appassionato sodalizio) il prāṇā è stato assimilato a concetti «energetici» quali il qi cinese, all’idea di aura, alla pranoterapia, al reiki e a forme di cura e di medicina alternative, e a tanto altro ancora. La tendenza, più o meno consapevole, alla fisicizzazione e alla ricerca di un accordo con una fantomatica «scienza» è ormai un dato acquisito e pressoché incontestabile. Un brano di Anodea Judith (1989, p. 27), le cui opere sui cakra sono oggi popolarissime, esemplifica pienamente questa visione tipicamente New Age:
«Il corpo sottile è il corpo psichico non fisico sovraimposto al corpo fisico. È costituito dalla parte più spirituale di noi, e lo sperimentiamo sotto forma di pensieri e sentimenti. Può essere sperimentato come un campo di forza elettromagnetica che si trova all’interno e intorno a ogni creatura vivente. La fotografia Kirlian, per esempio, ha ripreso le emanazioni del corpo sottile tanto delle piante che degli animali. Nell’aura, che è la manifestazione esterna del corpo sottile, il campo di energia appare come un bagliore intorno al corpo fisico, spesso composto da fibre affusolate. All’interno del corpo, il campo sottile si manifesta sotto forma di dischi rotanti detti chakra».
In questo brano è evidente il tentativo di dimostrare la realtà sottile e non fisica dell’«energia» legandola a concetti decisamente ‘fisici’ e scientifici come la forza elettromagnetica, e pseudoscientifici come la fotografia Kirlian. Poche pagine oltre (pp. 33-34) troviamo due tavole che illustrano le corrispondenze (ormai accettate acriticamente da milioni di persone) tra cakra e gangli nervosi, e tra cakra e ghiandole del sistema endocrino, dunque tra l’energia ‘sottile’ e gli aspetti grossolani del corpo fisico. Provare a ricercare queste corrispondenze nei testi sanscriti antichi sarebbe ovviamente tempo sprecato, visto che si tratta di elaborazioni moderne di autori occidentali o di autori indiani a loro volta influenzati da dottrine occidentali.
Naturalmente la ‘scienza ufficiale’ (fonte di ogni male secondo la vulgata New Age) non sottoscrive in alcun modo queste idee, considerandole prive di ogni evidenza empirica: sta di fatto che nessuno scienziato ha mai misurato il prāṇa, individuato e mappato le nāḍī e i cakra e monitorato in laboratorio l’ascesa della kuṇḍalinī.
In quanto praticanti di yoga, come dovremmo porci di fronte a tutto questo? Ovviamente non so dare una risposta definitiva. Personalmente credo che ricercare a tutti i costi una prova scientifica dell’esistenza del prāṇa (il consueto: «se lo dice la scienza allora è vero») sia una via irta di insidie. Trovo molto più utile soffermarmi ogni tanto a riflettere sui modi in cui uso termini come «energia» o «prāṇa» e constatare la loro fondamentale ambiguità. Questa natura ambigua e vaga non è per forza un difetto, ma può essere utilizzata come uno stimolo all’indagine. Piuttosto che considerare il prāṇa una realtà oggettiva e concreta da dover scoprire e fissare, perché non considerarlo una realtà soggettiva da evocare? Il significato del termine bhāvanā, che traduciamo generalmente con ‘meditazione’, significa letteralmente ‘portare in essere’. Perché allora non portare in essere il prāṇa dentro di noi, evocandolo fino a sentirlo? Non si tratta di ingenua autosuggestione, ma di un approccio serio, aperto e rigoroso. Personalmente non ritengo che lo yoga sia una ‘scienza’, perché esula dai presupposti stessi del metodo scientifico, che si basa sulla fondamentale distinzione tra l’osservatore e l’oggetto osservato. Il soggetto dello yoga, lo yogin, e il campo stesso della sua ricerca, ovvero le sensazioni che sperimenta soggettivamente, di fatto coincidono. Nessuno, se non noi stessi, può ‘misurare’ ciò che proviamo nella pratica: la vitalità, l’energia, il soffio di vita che percepiamo, quel ‘non so che’ che non so spiegare ma che sento è il motivo che ci spinge tutti a praticare, e a scoprire ogni giorno nuovi orizzonti di senso.
Bibliografia
E. De Michelis, A History of Modern Yoga. Patañjali and Western Esotericism, Continuum, London 2005.
G. Flood, The Tantric body. The Secret Tradition of Hindu Religion, I. B. Tauris, London 2006.
A. Judith, Cakras. Ruote di vita, Armenia Editore, Milano 1989.
T. Krishnamacharya, Il nettare dello Yoga, Astrolabio, Roma 2013
A. Padoux, Tantra, Einaudi, Torino 2011.